posta fatta in casa

Leonardo Benevolo : Ricordo di Michele Valori - da "Città e Società", ottobre-novembre 1980 by Paola Valori

Solo davanti all’oceano Atlantico, nell’altro emisfero, richiamo alla memoria l’amico scomparso un anno fa.

Ho incontrato Michele Valori nel novembre del 1941, al primo giorno di scuola nella Facoltà di Architettura di Roma,: un ragazzo piccolo e sorridente, che sembrava truccato da adulto con un paio di baffi neri. Aveva maniere sicure e disinvolte, e conosceva già tutto e tutti.

Ho appreso che era figlio di Aldo Valori: lo scrittore conosciuto e amato già da bambino per il libro I Grandi Capitani, che adesso faceva i “commenti ai fatti del giorno” e entrava con la sua voce pacata nelle case di tutti. Michele aveva una voce molto simile, con una raffinata cadenza toscana e un vocabolario ricco, che gli permetteva di parlare con proprietà di ogni cosa.

Abbiamo fatto amicizia quasi subito, e ho frequentato qualche volta la sua casa in Viale Medaglie d’Oro. Ho intravisto le sue numerose attività di quando era studente liceale: i disegni, le poesie, ( ricordo una che aveva per ritornello “fumo una sigaretta”). Io che venivo dalla provincia ammiravo soprattutto la sua cultura cittadina. Il campo dove era più informato era la storia del Risorgimento italiano, qui, come ho capito dopo, era anche il fondamento della sua ambizione architettonica:  riconoscere i caratteri costitutivi della società italiana post-universitaria, e inventare per questa società uno “spazio all’italiana”, specifico e al passo con la cultura internazionale.

Nei primi due anni di scuola, dal ’41 al ’43, vivevamo in un seminterrato della Facoltà di Valle Giulia, isolati dal mondo e spauriti dagli avvenimenti della guerra. Ogni tanto un nostro compagno più grande partiva per un fronte lontano e non se ne sapeva più niente. Un vecchio generale cieco ci faceva lezioni di “cultura militare” con il tono ispirato di Carlo Delcroix, e ci parlava della bellezza della guerra “igiene dei popoli”. Noi eravamo alle prese con difficoltà immediate e pedestri: dovevamo fare grandi disegni a matita sulla carta bianca, copiando le fotografie di Alinari, e scrivere su questi il nostro nome in lettere romane dell’età augustea. Michele diventava stranamente disarmato di fronte a questi ostacoli.

Ricordo che ha impiegato più di un mese a scrivere Michele Valori, e che ha ripetuto parecchie volte l’esame di geometria descrittiva, manifestando anche propositi di interrompere gli studi. Ma fin da prima era vulnerabile: mi ha confidato poi , quando era laureato, che faceva un sogno ricorrente: un suo professore di liceo o avvertiva che non aveva superato l’esame di greco, e che tutti i suoi successivi, compresa la laurea, erano ancora condizionati a quell’esame.

Credo che non sopportasse di dover essere giudicato, per orgoglio o per insicurezza.

Io invece, con una preparazione culturale tanto inferiore, ero bravissimo e sicuro agli esami, e lui mi ammirava per questo.

La nostra amicizia è nata da questa reciproca stima, senza desiderio di competizione.

Il segno della sua amicizia era quello di lasciar cadere –per poche persone – la sua suscettibilità ombrosa: io avevo persino il diritto di canzonarlo per la sua piccola statura, su cui da nessuna accettava allusioni.

Quando, parecchi anni dopo, mi ha detto di voler comprare un’automobile enorme – perché aveva manie di grandezza –gli ho risposto che così sarebbe vista una Mercedes che girava da sola per Roma, e mi sono pentito subito: ma lui ha accolto l’osservazione con una gran risata.

Dal ‘43 al ’45 sono rimasto in montagna nel Nord, e ho perso di vista i miei compagni di università, irraggiungibili al di là del fronte. Quando sono tornato a Roma nei primi giorni di maggio,  ho capito, rivedendoli, l’importanza dei rapporti che mi legavano a loro, e abbiamo vissuto insieme un altro momento capitale della nostra vita: il ritrovamento della pace, della libertà di movimento e di parola,  della vita democratica, alle soglie di un futuro sconosciuto. Tutto andava male, mancavano i soldi, il lavoro, la casa, i treni, gli autobus, il riscaldamento, ma le nostre forze erano integre e ogni cambiamento sembrava possibile.

Michele soffriva le difficoltà della famiglia per i trascorsi fascisti di suo padre, ma sembrava cresciuto e fortificato. La sua scelta culturale, per l’architettura moderna era già decisa e argomentata, e io, come molti altri, ho ricevuto da lui la spinta decisiva. 

Nella Facoltà e nel paese l’architettura accademica teneva ancora banco, e così avevano anche il gusto di comparire come una minoranza politica.

Frequentavamo insieme le persone più anziane che avevamo scelto come maestri – Ridolfi, Quaroni – organizzavamo in Facoltà conferenze sull’architettura moderna degli anni trenta – Michele ha illustrato la casa del fascio di Como di Terragni, dichiarando il suo affetto per questo architetto appena morto -  e facevamo con grande impegno progetti dimostrativi che non volevamo presentare ai nostri professori ma a una mostra del centro studi autonomo degli studenti intitolato a Giorgio Labò.

Valori e Melograni hanno progettato un caffé in un parco, ioe Rotondi una mensa popolare. Eravamo naturalmente collegati agli architetti moderni un po’ più anziani di noi, e ci siamo scritti all’Associazione per l’Architettura Organica promossa da Bruno Zevi, ma non ci sentivamo del tutto a nostro agio, percependo nel dibattito delle tendenze (architettura nazionalista e architettura organica) un persistente spirito eclettico.

Gli aggettivi, e la disinvoltura dei critici nell’applicarli, ci davano fastidio,: per parte nostra ci attenevamo allo studio filologico dei maestri ( Le Corbusier, Mies van der Rohe, e soprattutto l’amatissimo Gropius, nel cui tono ragionevole e comprensivo trovavamo la vera innovazione culturale; quando uno di noi faceva una cosa ben riuscita, l’esclamazione d’uso era: “Gropius!”), dell’architettura degli ultimi anni trenta -  interpretata da molti in termini di cambiamento di tendenza – il quadro giusto ci sembrava quello del libro di Roth, La nouvelle architecture: continuità metodologica e ampliamento della rosa di esperienze.

Del Roth ammiravamo anche il rigore della presentazione grafica, e di là capivamo le tecniche per fare i nostri disegni.

Michele era il più bravo di tutti noi, e non avevamo dubbi che sarebbe diventato uno dei protagonisti dell’architettura italiana del futuro. Nel progetto presentato all’esame di composizione del terzo anno, nel 1946 – una casa di abitazione unifamiliare – si è espresso compiutamente per la prima volta , meravigliando anche noi.

Anche lui era soddisfatto e dimenticava le sue paure, dissertando con estrema sicurezzaal tavolo con gli insegnanti.  Ma poi negli ultimi esami scientifici ricominciava a pasticciare: la sua ultima bestia nera è stato un terribile professore di topografia, che lo terrorizzava.

Infatti mentre io e altri ci siamo laureati in tempo alla fine del 1946, lui ha aspettato ancora qualche anno, e nel progetto di laurea – che allora si faceva in aula in una settimana – ha ancora sbaragliato il campo.

Era una piscina coperta con una volta sottile, per cui io gli ho procurato, sottobanco, un modello calcolato da Finsterwalder, che ha fatto sensazione nella discussione finale.

Dopo la laurea io, Michele e Giampaolo Rotondi abbiamo lavorato per un periodo insieme; lavorare voleva dire partecipare ai concorsi, senza guadagnare un soldo.

Come studio avevamo uno stanzone nella sartoria di della madre di Rotondi a Via Veneto, dove si arrivava facendosi largo fra le stoffe e i lavoranti.

Poi il bisogno economico ha indotto me e lui a impiegarsi all’Immobiliare, dove abbiamo disegnato concoscienzaprogetti negli infimi ranghi dell’ufficio.

Ricordo bene Michele che illustrava i suoi precisi disegni esecutivi a un capo ufficio perplesso.

Lui però ha resistito poco, e nel ’49 è uscito, per partecipare al primo concorso dell’INA –CASA,  che , che lo ha inserito finalmente nel mondo del lavoro.

Il suo progetto di concorso conteneva una vera invenzione tipologica – uno snodo di tre alloggi intorno a una scala triangolare, così gli elementi costruttivi popolari allora consueti – muri portanti, finestre in legno, persiane, tetti a tegola –  risultavano organizzati con logica impeccabile e nello stesso tempo conricchezza di articolazioni volumetriche.

Quando poi Michele è entrato con Ridolfi, Quaroni, Fiorentino e Gorionel gruppo per il quartiere Tuscolano, il suo snodo è stato adottato come articolazione ricorrente dei corpi di fabbrica, che dà un ordine accettabile all’insieme.

Negli anni cinquanta, Michele ha sviluppato queste ricerche in numerosi progetti, fra cui spiccano i due villaggi progettati per i dintorni di Matera: La Martella, con gli stessi compagni, e torre Spagnola (non eseguito) con Federico Gorio.

Credo che nessuno abbia condotto più a fondo la ricerca per la qualificazione moderna delle strutture povere senza allentare nemmeno di poco il rigore metodologico imparato dai maestri.

Purtroppo le realizzazioni convalidano solo in parte questo impegno. Infatti il progetto di Torre Spagnola – che contiene la migliore invenzione di tutto il “neorealismo” italiano, cioè lo splendido disegno della chiesa parrocchiale – non è stato eseguito.

In quel periodo Michele lavorava per conto suo a vari progetti di chiese che lo interessavano profondamente come cattolico e come studioso dell’architettura tradizionale italiana: alcuni avevano una molteplicità di cupole che mi lasciavano perplesso. A metà degli anni cinquanta i nostri interessi hanno incominciato a differenziarsi.

Io mi dedicavo sempreascrivere, ero diventato professore di Storia dell’Architettura, e avevo cominciato a comporre per Laterza “La storia dell’Architettura moderna”, anche se collaboravo con Valori e Rotondi in qualche progetto minore, per non restare senza soldi.

Michele aveva le stesse necessità, ma concentrava tutte le sue energie nella realizzazionedi uno studio professionale serio, che ha finito per diventare il luogo della sua realizzazione personale esclusiva, e ha raggiunto il suo scopo dopoanni di privazione.

La qualità professionale del lavoro diventava un obiettivo a sé stante, che gli dava finalmente sicurezza in ogni senso (umana, sociale, economica)  e per cuisacrificava in certa misura le altre sue ambizioni. L’inventiva architettonica, lo studio, la produzione scritta.

Abbiamo discusso molte volte di questo, e io gli ho anche rimproverato talvolta le sue capacità inutilizzate. Ero incoraggiato nel vedere che i miei amichevoli rimproveri gli facevano piacere, e che il suo programma di lavoro restava quello di un ragazzo che ha molti anni davanti a sé, quindi riserva al futuro le cose che non riesce a fare nel presente.

Uno dei motivi di irritazione, che lo allontanavano dal campo degli studi, era il suo insuccesso come docente universitario: è rimasto per un tempo immemorabile assistente di Urbanistica, poi ha avuto un incarico a Cagliari, e solo negli ultimi anni è riuscito a tornare a Roma e diventare ordinario, a cinquant’anni passati.

Si ripeteva l’insicurezza della sua carriera scolastica, e lui ne soffriva come di un fatto personale. Invece era la cultura italiana organizzata che si modificava in modo da non avere più posto per lui, perché le sue doti di precisione, di rigore, dicompletezza erano facilmente sopravanzate dalla disinvoltura parolaia dei concorrenti.

Ad ogni modo adempieva scrupolosamente i suoi doveri universitari, e ricavava un conforto dalla stima degli allievi, che non gli è mai venuta a mancare.

In queste incertezze di indirizzo, c’era un punto fermo: il suo profondo interesse ed affetto per la città di Roma. Infatti tra il 1955 e il 1962 Michele ha dedicato almeno metà delle sue energie alla preparazione del nuovo piano regolatore di Roma, e chi farà la storia di questa operazione lo riconoscerà come una delle figure decisive, sia nella elaborazione iniziale, sia nel recupero dopo il fallimento del 1959.

Per la sua giovane età era tagliato fuori dal gruppo di progettazione del 1955 – dove le personalità dominanti erano Quaroni e Piccinnato – ma ha fatto parte della “grande commissione” che doveva seguir ei lavori, e ha dato in quella sede, un contributo determinante. Io e lui abbiamo poi organizzato – dopo il rifiuto del piano della giuntadi centro destra del 1959 – i tre numeri speciali di “Urbanistica” dedicati a Roma, e ci siamo divisi i capitoli della cronistoria. 

Il commento finale che lui ha scritto – Fare del proprio peggio – dà il tono a tutto il dibattito, ed è probabilmente il miglior scritto italiano di urbanistica di tutti gli anni cinquanta: precisione, tecnica, chiarezza, di indirizzo e passione civile sono combinati in modo eccezionale, e anche la scrittura – di straordinaria felicità letteraria – dà finalmente una misura adeguata delle sue capacità.

Gli ho sempre citato quel testo come argomento dei miei rimproveri. Chi meglio di lui avrebbe potuto scrivere una storia delle città italianedopo l’unità o un manuale di urbanistica, o una storia di Roma moderna.

Nel 1961, sotto il primo governo di centro-sinistra, la sua personalità  è abbastanza conosciuta per entrare nel nuovo gruppo di progettazione incaricato di rifare il Piano, e sono sicuro che in quella sede lasua maturità di giudizio – oltre alla sua capacità di lavoro concreto –hanno contato almeno alla pari coi due più anziani maestri, che del resto avevano con lui una lunga consuetudine.

Oggi riconosciamo i limiti di questo tipo di pianificazione indeterminata delle previsioni e inadeguata negli strumenti, ma l’importanza storica del piano di Roma insieme a quello di Firenze di Detti e La Pira, e a pochi altri – è fuori discussione: per la prima volta la cultura accademica è stata estromessa dai piani delle grandi città, e compare negli strumenti ufficiali un disegno moderno, sebbene ancora dimostrativo, e non operante nei meccanismi concreti.

Dopo i primi anni sessanta mentre le aspettative del centro-sinistra si esauriscono, anche gli impegni pubblici di Valori si diradano, e lo studio lavora prevalentemente per i privati e per l’estero. In ambedue i campi si manifesta una contraddizione: nei lavori privati, fra le ambizioni dell’architetto e l’esiguità dei termini proposti dai committenti (ricordo una palazzina realizzata per i Beni Stabili a Poggio Ameno: l’androne e il piccolo cortile interno sono definiti con una cura puntigliosa, adoperando una dovizia di termini architettonici sproporzionataal tema; nei lavori all’estero, fra la proprietà tecnicasempre impeccabile e la genericità dell’approccio culturale Michele Valori aveva collocato una volta per tutte il suo interesse alla realtà italiana, e avrebbe dato la piena misura di sé se gli fosse stata affidata qualche importante sistemazione pubblica: ma ormai era emarginato da questa realtà.

Del resto lo studio era il suo guscio in cui si sentiva difeso: qualunque cosa stesse facendo: le grandi stanze bianche e ordinate, le cose allineate sui tavoli, i collaboratori scelti da molto tempo, che lui trattava con un piglio padronale e amichevole nello stesso tempo, e che gli erano affezionati davvero.

Anche i nostri contatti si erano diradati: io avevo trovato una collaborazione con altri amici, poi avevo scelto il ruolo di consulente di alcune amministrazioni pubbliche del Nord, che mi avrebbero portato fuori dall’università e fuori Roma. Quando ci rivedevamo lo trovavo deluso e riservato.

Mi ha colpito, una volta, una sua frase durante una visita a cena nella sua casa degli anni trenta a via Lima; le sue tre figlie erano riunite in una stanza e gli ho detto che sembravano un gruppo di altri tempi, come nelle vecchie fotografie; mi ha risposto che ne era molto contento, perché odiava tutto quel che era moderno (lui, che aveva indicato a tanti la via della vera architettura moderna).

Anche la nostra antica consuetudine di lavorare insieme per le organizzazioni culturali cattoliche ( appena laureati, nelle riunioni della cappella universitaria di Roma, negli anni sessanta, in un corso estivo dell’Università  Cattolica della Mendola, da cui è scaturito un corso di Urbanistica nella facoltà di Economia a Milano, che Michele ha puntualmente svolto fino alla fine, un estate in Olanda, per un convegno di un gruppo internazionale di laici; nell’Unione dei Tecnici Cattolici, al tempo del Piano di Roma) si era esaurita per il cambiamento delle circostanze generali e di quelle personali.

Ha fatto parte negli ultimi tempi del gruppo romano della Lega Democristiana, quando io già abitavo nel Nord, ma aveva perduto l’entusiasmo in queste cose.

Sapevo che non era felice, e anch’io come lui ho mandato continuamente una ripresa di contatto, facendo conto in un futuro indeterminato.

Poi la sua morte improvvisa mi ha insegnato cheil futuro non è una riserva assicurata , ma ogni momento è un dono, da cogliere o da lasciare passare.

La sua morte non ha fatto scalpore nel mondo della cultura, e questa è la misura del suo isolamento degli ultimi anni. Ma noi che lo abbiamo conosciuto più da vicino sappiamo che è scomparso uno dei più straordinari talenti dell’architettura italiana, e ci resta – oltre al dolore per un’amicizia troncata – il rimpianto di sapere perdute per sempre le capacità irrealizzate.

Forse la sua sensibilità lo lasciava indifeso contro le durezze della vita e del lavoro, e allora si lasciava sconfiggere come agli esami di geometria descrittiva, da ragazzo.

 O forse le cose importanti non sono quelle che si vedono, e il ricordo di quanto gli dobbiamo ci fa intravedere un altro bilancio nascosto: quello con cui è stato sorpreso – di notte – dall’arrivo improvviso del padrone di casa della parabola.

 

 

 

 

 

 

 

Alberto Maria Fortuna – La posta fatta in casa di Michele Valori by Paola Valori

GIORNALE DI BORDO DI STORIA LETTERATURA ED ARTE

Firenze – febbraio 1998 

Tra la libreria delle guide e delle storie locali e quella della religione, accanto alla finestra lo zio Aldo Valori per anni mi ha sorriso in un modo enigmatico, il cranio quasi calvo.Un sorriso appena nascosto dalle lenti a pince-nez, montate con un filo d'oro, e da una tenue coppia di baffetti. Un cappuccio di stilografica emerge dal taschino insieme alla cocca di un fazzoletto, candida sulla giacca scura a righe dove, all'occhiello, luccicano due distintivi. Insomma, una testimonianza iconografica che è anche un espediente decorativo necessario per l'armonia dell'arredamento e un monumento di aristocratica compostezza per esaltare lo scrittore gentiluomo (usava piccole ghette chiare; due soli ne ho visti in tanti anni, con quell'attrezzo: lui e il principe don Tommaso Corsini).

Un pezzo della casa, questo ritratto. Difatti l'ottima fotografia, in cornice laccata di ciliegio, completava la biblioteca del babbo come un particolare in apparenza trascurabile ma di fatto essenziale, come tutti i fenomeni indispensabili. Un'ottima foto, con in calce, sul margine bianco, un'attestazione accuratissima delineata dalla mano dello stesso fotografo: “Michelinus fecit Anno Domini 1934”. E questa era quasi una profezia: quell'opera, nata da un ragazzo undicenne, rivelava un'innegabile attitudine alla composizione, stretta collega della migliore architettura (anzi, dell'architettura in assoluto). Gli anni, non per nulla, hanno trasformato quel precoce fotografo in un maestro dell'arte e nella scienza architettonica e urbanistica.

Per farla corta quella foto di Michele Valori mi ha accompagnato, all'insaputa del suo ben noto autore, dal tempo della mia nascita (quel 1934, appunto), riuscendo a incuriosirmi fin dall'età della ragione. E poi c'era quel Michelinus a sconcertarmi: dimostrava infatti che, fin dai primordi, Michele non solo non aveva subìto la sua statura (era alto pressappoco come Vittorio Emanuele III), ma non aveva nessuna remora a scriverlo, forse quasi per esorcizzare quel fatto. E' sicuro, in ogni modo, che Michele in casa mia c'è stato poco perché ci bazzicava ogni morte di papa e quando ci veniva non dava certo retta a me, uno qualsiasi degli innumerevoli parenti e con molti anni di meno. Quando compariva lo faceva di solito in compagnia dello zio: e tutti e due, nello studio tappezzato di libri, si mettevano senz'altro a discutere col mio babbo con accorate variazioni sul tema delle ultime vicende soprattutto artistiche italiane e romane in particolare (sfoghi contro l'imperversare dei palazzinari e il caos edilizio; il progetto di risanamento dei Sassi di Matera, la cranioteca medicea del Pieraccini che lo zio definì senz'altro, mi pare sul Corriere della sera, una bischeroteca e così via). Ma se le sue visite eran rare, da noi arrivava però, e con dovizia tramite la carissima zia Etre sorella della mia mamma, un'eco quasi palpabile dei suoi successi che erano concreti ed – è proprio il caso di dirlo – costruttivi, anche se magari Michele ci credeva poco per via di uno scetticismo o meglio di un pessimismo pratico che non si curava di nascondere.

Una sua memorabile apparizione si ebbe un giorno in via Benedetto Varchi, a Firenze: un casone giallo marroncino a piani tra il gusto dannunziano e il Liberty, tirato su con uso abbondante di longarine, (che non si vedevano) e di cornicioni ed elementi decorativi (che si vedevano anche troppo).Davanti ai nostri pavimenti in mattonelle variopinte e lucide, a figure geometriche di quattro o cinque modelli diversi anche nella forma, Michele cominciò a dare evidenti segni di eccitazione e, con esclamazioni di meraviglia, girò per tutta la casa con un'allegria e un'energia incredibili (volle vedere perfino il bagno e il ripostiglio e l'enorme cucina di ghisa nera unta, coi maniglioni e i passanti d'ottone che sembravan d'oro) prendendo schizzi e soffermandosi a considerare cerniere, serrande, borchie, fregi tinti a stampino e quanto altro poteva fornire quell'antologia di una moda borghese dei primi del secolo e che gli tornava utile per chissà quale progetto. Poi ispezionò professionalmente lo studio, proprio quello dov'era esposta per la quarta volta (tanti erano stati i traslochi nell'arco di vent'anni) la sua ricordata fotografia e rassicurò il mio preoccupato genitore sulla stabilità delle strutture dell'edificio, perché il padron di casa, che a cicli ricorrenti si attaccava volentieri e invano agli specchi pur di buttarci fuori e che, con una furbizia sopraffina, tentava tutti gli espedienti per raggiungere quel fine perverso, sosteneva che tutti quei volumi potevano far crollare il palazzo (ignorava forse che molti libri sono assimilati al materiale da costruzione per la loro dottrinaria qualità di mattoni e perciò in casi estremi dovrebbero perfino rinforzare i muri).

Un'altra volta, qualche anno dopo, eccolo a San Martino sotto la Falterona, tra le montagne. Gli era chiesto di ingrandire la nostra casa, in cima a uno sperone scosceso. Michele ispezionò tutto, discusse con Elio e con Andrea – i miei fratelli ispiratori dell'impresa – e, dopo non molto, ci mandò un progetto completo che, a quanto rammento, era di un avvenirismo inaudito per la mia mentalità e per quei luoghi classici e sacri alle memorie etrusche, dantesche e rinascimentali. Infatti, ristrutturato con molto rispetto il vecchio nucleo contadino – che vecchio non era perché l'edificio era stato rifatto con le antiche pietre dopi il terremoto del 1919 – aveva aggiunto una serie di ambienti ultramoderni (acciaio, vetri e così via), quasi un chiuso portico che, con un percorso non rettilineo (a zig-zag) verso la ripa e la valle a sud, guardava la montagna come ad abbracciarla con le due ali a est, mentre le spalle erano protette dalla collina a nord-ovest e perciò al riparo dalla tramontana. Il tetto, se ben ricordo, formava una lunga terrazza che faceva tutt'uno e si univa naturalmente e senza scalini con il grande prato della sommità del poggio, dove in antico era stato un castelletto e una chiesa. Dunque, un utilizzo geniale del terreno, nel rispetto dell'ambiente e fatto anche per permettere nuove aggiunte. Purtroppo, sul più bello, i fondi non arrivarono e il progetto rimase nel limbo delle buone intenzioni.

Con il disegno per San Martino si capì che Michele amava costruire con mezzi e vedute nuove in ambiente classico. Non smentiva le sue radici fiorentine, anzi fiesolane, ma non smorzava neppure quel suo modo di guardare avanti, di anteporre l'utilità generale – ecco la sua passione per l'urbanistica – ai vecchi canoni estetici. In architettura vedeva lontano: era presbite piuttosto che miope anche se una volta che ero di passaggio da Roma mi fece vedere, di volo e in un momento di abbandono commemorativo, insieme a qualche struttura del suo amato Borromini, la facciata dell'antico capolavoro di Baldassarre Peruzzi, il palazzo Massimo alle Colonne, e mi confermò con un pizzico d'ironia quanto già la Chiara, una delle sue sorelle, mi aveva insegnato: che mentre i fiorentini chiamano colónne quelle del Brunelleschi i romani dicono colònne quelle del Bernini a piazza San Pietro (per via dell'entasi molto più massiccia).

Mi son lasciato travolgere da questa spolverata di ricordi, buttati giù a caldo dopo aver letto con una curiosità che non provavo ab immemorabili, e letto fino all'ultima riga (risvolti compresi), quel volume con alcuni scritti di Michele – Posta fatta in casa – che sua moglie Valentina ha scelto per amore, per seguitare a essergli vicina e per farlo conoscere meglio. Mi son convinto che la raccoglitrice – forse sarebbe meglio dire l'autrice d'elezione per l'evidente consonanza e armonia con quel che ha pubblicato del marito scomparso all'improvviso nel 1979 – non è stata forse del tutto consapevole di quanto sia riuscita a fare: cioè un ritratto dal vivo, che parla (proprio con quell'erre francese) tagliando e cucendo alla fiorentina, che ci guarda quasi canzonatorio con occhi a spillo, e scatta e scintilla e a volte perde le staffe. Insomma una persona vera, autentica, con pregi e difetti e che ha assimilato dalla cultura i mezzi per esprimersi senza rimanerne vittima.

A leggere ci si aspetta d'incontrare il cattedratico, il maestro, l'innovatore, il pioniere che si inoltra su strade ignote. Certo, tale è una parte della storia, ma subito ci si imbatte in un diarista spigliato e coraggioso – uno spirito mordace e ricco di estro che descrive con un tratto luoghi ed emozioni, un bozzettista arguto e corrosivo – per non dir poi dell'uomo in ogni sua latitudine: euforico, tenero, critico, sdegnato, crudo, idealista, saldo nell'opinione ma anche sincero nel confessare dubbi e debolezze. Insomma, un carattere reso tanto più interessante quanto più riesce a vivere, come in questo caso, nell'ambiente stimolante della famiglia Valori (padre celebre storico e giornalista, madre scrittrice, un fratello scrittore storico e un altro sapiente gesuita, una sorella notissima attrice e via dicendo).

Alcune note, prese al volo dal libro. Questa sarebbe piaciuta a Longanesi: “25 giugno [1956] Pittsburg – Incontro finalmente Mr. Tronzo. Era un pezzo che volevo conoscere quest'uomo coraggioso che ha saputo vivere nonostante il suo nome”. E cinque giorni dopo, da Filadelfia: “L'intellettuale americano è un individuo molto astratto, estremamente tormentato. Non riesce a liberarsi dell'America e vorrebbe. Si vergogna di non poterci capire e ci invidia la nostra sciatteria e il nostro scetticismo. (…) Pensano che gli Europei, come sono riusciti a impadronirsi di una parte dei loro soldi, tentino ora di sottrarre loro l'intimità intellettuale. Ma poiché la riconoscono debole e approssimativa, si nascondono tenacemente”. O quest'altra, del 1963: “Peccato che la nonna delle mie figlie non possa essere che la nonna di se stessa”.

Accanto a questa fanfara scanzonata, ecco un appunto del 23 giugno 1963, al polo opposto: “Chiedo oggi con tutta la forza del mio cuore, con tutto l'impegno della mia mente, la grazia divina di essere fedele a quanto l'anima mia predilige e ha scelto. Chiedo anche che il mio lavoro quotidiano, così stupido, così ristretto, così umano, legato alle cose, agli oggetti, alle faccende degli uomini indaffarati, possa elevarsi a virtù di spirito. Attraverso di essi vorrei poter testimoniare nei limiti miei, nell'umiltà, le verità che amo, che sono mie, ma che vorrei fossero di tutti”. Il tema spirituale suona ben chiaro anche nel rapporto con la moglie, che si compiace di rimirare a suo modo (come in quell'alfabeto che è un espediente per tratteggiarne un ritrattino affettuoso, canzonatorio), sicché si capisce che è una donna fatta proprio per un Michele grato e tanto entusiasta che dovunque, dalle pagine, la fa emergere come un arcobaleno dopo la pioggia.

Molto bello un appunto sulla maternità, che ha appesantito l'andatura della Valentina: “Pensare “prima” ai figli è irreale, non si sa che cosa sia un figlio. Un figliolo è la nostra privata conferma del grande mistero della vita. Si osservano queste creature venute dal cosmo per causa tua, per volontà tua e vi riconosci una parte di infinito, di trascendente, che ti appartiene anche fisicamente, in forma tangibile. Posso toccare una creatura che è a metà, a mezzadria tra me e Domineddio. Che cosa meravigliosa, divina, la paternità”.

La pioggia che ha evocato l'arcobaleno è stata, talvolta, tempesta. Quanti sfoghi: sulla professione, sulla politica, sulla spregiudicatezza di un mondo chiuso ed egoista.Una confessione amara è del giugno 1969. Afferma: “vincono sempre i bisonti, i rinoceronti, gli ippopotami. Compio 46 anni. Non dico nulla perché tutto sarebbe sciocco. Errori, buone cose, conquiste, successi, nulla hanno a che fare con l'età. Io ho ancora 16 anni, sono ingenuo, debole, fantasioso, illuso, come 30 anni fa (1939). L'età della pietra. (…) Il mio destino è sempre quello di essere chiamato per ornamento. Un architetto dovrebbe essere un uomo capace di impadronirsi di un problema, proporre una soluzione, farla accettare, eseguire, realizzare. Noi invece proponiamo: nulla è mai realizzato, anche se accettato formalmente. Siamo degli impotenti”. E subito, dopo aver accennato al turbamento della coscienza nazionale (“la piccola e media borghesia non vuole il fascismo, sa che non può desiderare un rigurgito autoritario perché l'ha provato. Tuttavia lo rimpiange, e vorrebbe non averlo avuto per poterlo avere ora”), ecco seguire una profezia di una chiarezza inaudita: “La collaborazione tra comunisti e cattolici è già in atto per la costruzione del neo-capitalismo socialista (e piccolo borghese)”.

Arricchiscono il volume inconsueti disegni dell'autore: e tra questi una bella autocaricatura (ottima, anzi, da far concorrenza addirittura a quelle che, temporibus illis, produceva Enrico Caruso in persona quand'era in vena di scherzare) e letterine figurate alla moglie e alle tre figlie. Il volume ha una prefazione di Masolino D'Amico, una Nota introduttiva di Arnaldo Bruschi, una Postfazione di Leonardo Benevolo e si chiude con una relazione di Margherita Guccione su “L'archivio di Michele Valori a Monterotondo (Roma), che è “fonte preziosa della storia dell'architettura e dell'urbanistica in Italia” e, come tale, notificato. 

 

Arnaldo Bruschi. Una giovinezza con Michele by Paola Valori

Nota introduttiva di Arnaldo Bruschi

Mia nonna paterna era una Valori, sorella del nonno di Michele. Mio padre, da sempre e più che agli altri cugini, era legato a suo cugino Aldo, storico e giornalista. Ne condivideva specialmente gli interessi letterari, la passione dei libri (un'antica e ricorrente passione di famiglia) e il gusto della lettura.

La famiglia Valori era, per noi,per tanti versi interessante. Una famiglia numerosa, ma di persone diversissime tra loro; a cominciare dal padre Aldo e dalla madre Etre. Una famiglia assai unita, tenuta insieme soprattutto dalla personalità fortissima, sicura e intransigente, della madre; ma anche una famiglia nella quale era possibile per ciascuno - e si respirava – la franca espressione di una spregiudicata libertà di pensiero; nella quale ciascuno poteva rimanere fedele a se stesso e alla propria vocazione: quella di magistrato o di medico, di padre gesuita o filosofo, di architetto o di attrice. Una famiglia nella quale ogni contraddizione poteva coesistere, essere accettata, purché motivata da una sincera spinta interiore. Da bambini, negli anni Trenta, non ci vedevamo, tuttavia, tanto frequentemente. Solo due o tre volte all'anno - quasi ritualmente - le nostre famiglie, al completo, si scambiavano visita. I Valori abitavano - allora mi sembrava - lontanissimo, nel quasi disabitato, a quel tempo, Viale delle Medaglie D'Oro. Prendevamo vari tram per raggiungerli. Era, per noi bambini, quasi un viaggio. Partivamo presto la mattina per arrivare un po' prima del pranzo.

Mia sorella ed io eravamo più piccoli - ma non molto - di Michele e Bice e giocavamo soprattutto nel loro giardino. Mi ricordo Michele - Michelino – da piccolissimo, vivacissimo e grassottello, correre con i calzoni corti; poi, non molto più tranquillo, con i calzoni "alla zuava", studente di ginnasio. Anche Bice era molto vivace, spiritosa. Scherzava e si agitava continuamente; ci portava – cosa proibitissima, ma segno di grande amore e complicità - a cogliere e succhiare certi fiori di un “suo” grande cespuglio.

Quando invece erano i Valori a venire da noi, la massima attrazione, soprattutto per Michele, sembrava essere il grande studio di mio nonno materno scultore, in Viale Regina Margherita, presso il quale abitavamo. In realtà questo ambiente, disposto su più livelli, popolato di grandi statue e di bozzetti, ingombro di calchi, di cavalletti, di creta, di gesso, degli strumenti più misteriosi era – anche per me – un luogo affascinante, quasi un palazzo misterioso che rivelava impensabili sorprese. Ma Michele, un po' più grande, era anche molto attratto dalla libreria di famiglia: in particolare dalla collezione delle annate rilegate, dalla fine dell'Ottocento agli anni Trenta, dell'Illustrazione italiana, della Domenica del Corriere e della Tribuna illustrata. Allora Michele si metteva sorprendentemente tranquillo a sfogliare, senza stancarsi, i volumi di questi giornali (che più tardi, da mia madre, a lui furono regalati) ampliamenteillustrati e ricchi di notizie e di cronache (poi, talvolta, divenute storia). Qualche incontrammo a scuola, dai Gesuiti, dove pure studiava Michele.

Nei primi anni Quaranta, durante la guerra, ci vedevamo ancora più raramente. Ma sapevo che Michele, finito il liceo, frequentava Architettura e Bice l`Accademia d'Arte Drammatica.

Anche per me, nel 1946, presa la licenza liceale, c'era il problema di cosa fare. Non avevo le idee chiare. Forse mi sarebbe piaciuto fare il pittore o lo scultore; forse l'architetto o lo storico dell'arte ma forse anche il medico o l'ingegnere. Fu così che chiesi aiuto a Michele. Da sempre mi divertivo con i colori e con la creta e disegnavo continuamente; anche architetture fantastiche. E dal ginnasio avevo cominciato a girare per Roma, per conoscere musei, chiese e palazzi. Ma non avevo la minima idea di che cosa fosse la Facoltà di Architettura. Michele, allora era già arrivato al quarto anno, era ormai un "anziano”, da tutti conosciuto in Facoltà. Mi fece un quadro non incoraggiante. Anche io mi iscrissi, senza troppo entusiasmo.

Da allora i nostri rapporti si intensificarono moltissimo, fino a divenire quasi quotidiani: a scuola, a casa, nel tempo libero. Rapidamente Michele riuscì a trasmettermi il suo coinvolgente entusiasmo per l'architettura. Mi faceva vedere i progetti per i suoi ultimi esami di composizione della Facoltà.

Ma le sue non erano esposizioni esteriori, formali. Mi illustrava le sue idee e le sue posizioni, i suoi intenti e la problematica delle soluzioni. In particolare, giorno dopo giorno, con la parola e con l'esempio, mi comunicava il sue metodo di progettazione: la rigorosa analisi del programma, la chiara impostazione del tema, i possibili esempi di riferimento, la critica delle possibili soluzioni, inizialmente studiate a mano libera ma sempre in scala, pensate subito nella tridimensionalità e nella loro materica concretezza, sempre verificate a margine – come un antico architetto – con moltipiccoli e rapidi schizzi assonometrici o prospettici. Voleva poi che gli sottoponessi le mie prime, estremamente timide e incerte, prove progettuali. Michele non interveniva con suggerimenti specifici ma, malgrado la sua semplicità e la limitatezza dei temi del mio primo e secondo anno, le sue parole – e il suo esempio – mi spronavano a tener conto, insieme, della distribuzione e del giusto dimensionamento delle parti, degli aspetti costruttivi e tecnologici ed anche di quelli esecutivi ed economici, senza perdere di vista i caratteri visivi del risultato. Al massimo esprimeva, con decisione, il suo disgusto per qualche mia ingenua e avventata soluzione e mi indicava qualche esempio – sempre moderno – da prendere in considerazione. Da lui, più che a scuola, ho imparato,  praticamente e attraverso l'esempio, le basi del mestiere di progettare.

Appena laureato - ricordo bene il giorno della sua laurea – Michele mi aveva subito chiamato, studente del terzo o quarto anno,  per aiutarlo in qualche suo primo piccolo lavoro professionale; come la progettazione, con i suoi arredi e completamenti, dell'aula consiliare del Comune di Civitacastellana (per la quale seguii anche con il falegname l'esecuzione del prototipo in legno dei seggi del sindaco e dei consiglieri).

Ci vedevamo il tardo pomeriggio o dopo cena, nella casa dei Valori a Piazza Cavour, poi suo studio. Michele mi illustrava alcune sue idee sinteticamente schizzate a matita. Lo ascoltavo con grande ammirazione. Sembrava che avesse subito le idee chiare sull'impostazione e sui caratteri della soluzione. Seduti uno accanto all'altro, discutevamo i problemi. Via via il progetto prendeva   forma. Mentre egli continuava a studiare soluzioni particolari, io, al tavolo da disegno, iniziavo a mettere in pulito i suoi disegni.  Già prima, da lui -più che a scuola - avevo imparato i segreti delle carte e degli inchiostri, dei pennini e dei compassi. Mi aveva insegnato a "grattare"gli errori, con la lametta, con gesto – egli diceva -  "ampio e solenne", senza bucare la carta.

Talvolta c'era da lavorare molto, fino alle prime ore del mattino, per giungere in tempo per la consegna o per la scadenza di un concorso.  Senza interrompere per vacanze o feste: anche questo era per me educativo. Ricordo di aver passato la notte di Natale, forse del 1949 o del 1950, per finire di disegnare a penna, il progetto a tipologia a trifoglio pensata da Michele per I'INA casa. Al tavolo accanto, il mio amico Renato Amaturo completava il modellino in legno – poi tante volte fotografato e riprodotto - dello snodo dimostrativo delle possibilità urbana implicite nello schema. Intanto Michele revisionava e completava le tavole preparate nei giorni precedenti. Lavoravamo in silenzio. Erano ore pesanti ma le ricordo piene di speranza. Erano ore felici.

Come si sa questo tipo edilizio progettato da Michele per I'INA casa – di grande raffinatezza e intelligenza progettuale al di là della semplicità dello schema – fu poi ripreso e costruito dallo stesso Michele, con Ridolfi, Quaroni, Fiorentino, Gorio, nel complesso INA casa del Tiburtino. Soprattutto a questi architetti egli era, anche in precedenza, legato; oltre che, in particolare, ai suoi colleghi di corso Leonardo Benevolo, Carlo Melograni, Gianpaolo Rotondi e Piero Lugli. Anch'io, già a quel tempo, fui introdotto da Michele nel loro ambiente – anche fuori della Facoltà – ed essi, forse più che i colleghi del mio corso, divennero i miei amici. Andavo talvolta a lavorare nei loro studi, visitavamo i primi loro cantieri.

Con questi amici ci vedevamo nel tempo libero. Spesso, dopo cena, andavamo al cinema e non di rado continuavamo in birreria discussioni interminabili sull'architettura, sul film appena visto, sulle ultime mostre d'arte, sugli ultimi libri letti. Ma erano, talvolta, anche discussioni di politica, di religione, di filosofia. Michele aveva sempre una sua opinione originale, personale, qualche volta paradossale e imprevedibile; animava la discussione con motti di spirito, con citazioni bizzarre, con giochi di parole (qualche volta a gara con Federico Gorio), con aneddoti divertenti, non di rado accompagnati da una mimica espressiva estesa a tutto il corpo. Il divertimento e l'allegria raggiungevano il massimo quando, in trattoria, la comitiva si allargava con la partecipazione di Bice, di Paolo Panelli e dei loro amici attori.

Più spesso - e anche dopo, almeno fino ai primi Anni Sessanta - Michele ed io ci vedevamo la sera, generalmente per vedere qualche film ma, soprattutto per parlare, per stare insieme. Quasi sempre mi accompagnava a casa e restavamo per ore, in macchina, anche nelle fredde o piovose giornate d'inverno, a parlare: di tutto; anche delnostro lavoro e dell'architettura: ma soprattutto della nostra vita, dei nostri desideri, delle nostre gioie, dei nostri affetti e delle nostre antipatie, delle nostre delusioni; dei nostri problemi e delle nostre speranze. Allora Michele si apriva con me, senza riserve mi comunicava il suo nascosto e forse per molti insospettabile disagio di vivere, la sua profonda malinconia, la sua insaziabile nostalgia di affetti e insieme il suo irrequieto, fiducioso entusiasmo per la vita. Variabilissimo di umore, subiva alti e bassi imprevedibili, ma al pessimismo più nero reagiva con corrosiva, amara autoironia o, con la sua consueta vitalità, cercava di dissipare le nuvole con vivaci, frizzanti motti di. spirito. Ma era anche allora che talvolta affiorava una sua pudica ma profonda religiosità: libera, decantata, spregiudicata ma sicura e, come quella di sua madre, inflessibile; alimentata dal senso del mistero, del sacro; messa a confronto conla scomoda realtà del mondo e degli uomini, ma consapevole della limitatezza umana.

Intanto, poco dopo la mia laurea, senza esitazione accettai l'invito di Michele a lavorare professionalmente con lui, rifiutando l'invito di Saverio Muratori e poi quello di Mario Fiorentino. Allora parecchi lavori ci impegnarono insieme: progetti di concorso - come quello per la sistemazione della pineta di Donoratico - o per incarico pubblico - come i varii progetti di complessi di edilizia “economica e popolare ", a Brindisi, a Trapani, a Catania - o per incarico privato - talvolta affidati a Michele, come una villa, mai costruita, per Marcello Mastroianni; o da me procurati, come due palazzine per una cooperativa INA casa a S. Marinella, delle quali, assistito da Michele, feci per la prima volta la direzione dei lavori.

Allora a studio e ancora - più a lungo e più intensamente - durante le nostre serate dopo il cinema, Michele mi parlava anche delle sue convinzioni, delle sue idee e delle sue ambizioni come architetto. Erano per lo più osservazioni rapide, battute estemporanee, brevi considerazioni occasionali slegate, spesso paradossali o, apparentemente contraddittorie: “la geometria, l'ordine geometrico è sempre stato alla base di ogni grande architettura”; “le forme più espressive sono quelle dei solidi poligonali, tridimensionali, insieme calme e mobili”; “il mio ideale sarebbe quello di fare una piccola casa come la disegnano i bambini, con un portoncino e due finestrine ma in cui tutto sianecessario e proporzionato in modo giusto, appropriato, naturale e senza forzature”; "ma perché non si potrebbe fare una chiesa moderna, modernissima, ma con tante cupole visibili da lontano?" "il compito dell'architetto è in fondo quello di mettere in ordine case, strade, città"; "quando si progetta, la cosa più importante è quella di azzeccare la "scala" giusta, appropriata per quella o specifica occasione, questa è pure la cosa più difficile".

Erano idee, posizioni, inclinazioni di gusto che sottendevano posizioni a lungo maturate e - configuravano una "poetica" singolarmente personale - strettamente legata alla sua complessa, ma ben delineata personalità umana e che in fondo trovavano il loro primo fondamento su solidissime basi etiche che l'obbligavano ad un impegno vigile e responsabile nel lavoro e, in generale, ad una sincerità assoluta verso sè stesso e verso gli altri. Da questofondamento etico derivava la sua intransigente adesione al movimento moderno, - senza riserve o compromessi, ma anche la sua ricerca della "qualità". Da qui derivava pure l'estensione del suo impegno all'organizzazione delta città e la sua scelta per l'urbanistica. Ma Michele era e rimaneva soprattutto un architetto, a suo modo un architetto "artista", naturalmente dotato di una sua sensibilità, pudica e sottile, ma creativamente prorompente per gli spazi e per le forme.

Un tratto caratteristico, distintivo del suo carattere, era la sua ricerca, il suo bisogno – quasi fisico - di ordine. Ricordo che forse l'unica occasione nella quale ci fu uno scontro tra di noi fu il pomeriggio precedente il giorno improrogabile di un lavoro nel quale eravamo impegnati da mesi. Eravamo molto indietro. Lo studio era in grande disordine. In quattro o cinque, ciascuno al proprio tavolo, cercavamo di completare i disegni, ancora mancanti di rifiniture, di misure, di scritte, ancora con parti da correggere. C'era poi da fare le copie cianografiche, fare il pacco da consegnare. A un tratto vidi Michele alzarsi dal suo tavolo e ordinare a tutti, con estrema decisione, di interrompere il lavoro, di uscire, di tornare solo dopo tre ore. Credetti che fosse impazzito improvvisamente. Anche lavorando tutta la notte, perdere tre ore ci faceva rischiare di non arrivare in tempo. Lo guardammo tutti esterrefatti. Con la massima calma ci disse che, prima di proseguire, doveva mettere in ordine lo studio. Gli altri uscirono. Io protestai vivacemente domandandogli se era cosciente della drammaticità della situazione. Ma Michele era irremovibile. Mi rifugiai in un angolo, impossibilitato a continuare. Vidi che Michele, con metodo e pignoleria, sgombrava tutti i tavoli e tutti i piani di appoggio, li spazzolava sistematicamente con cura, ammucchiava i disegni in un ordine rigoroso, allineava matite, gomme, penne, raggruppava righe, squadre e compassi. In questo lavoro non voleva essere aiutato; ma via via lo vedevo rilassarsi, cominciare a sorridere e infine concludere la sua fatica con un allegro motto di spirito. Lo studio era in ordine perfetto. Ora lui, e tutti noi, potevamo continuare e finire il lavoro.

Questo intimo bisogno di “ordine”, che coinvolgeva la sfera etica a quella esistenziale, lasciava anche le sue tracce nelle architetture di Michele. Un ordine interno -  ogni cosa, di dimensione e forma appropriata, al sue giusto posto nell'organizzazione dell'insieme – "è ciò che è più importante", diceva, "in ogni architettura; ed è tanto più importante quanto meno si vede. Ma che poi”, aggiungeva, “alla fine si vede". A lui che bollava sprezzantemente come "anticoidi” ogni esteriore anche minima concessione a forme tradizionali o al folklore, quest'”ordine" - strutturale, distributivo, geometrico, visivo - sembrava l'eredità "nascosta" caratterizzante la tradizione italiana e il segreto della sua qualità. Questa tradizione per lui, di origine fiorentina, era soprattutto quella toscana e raggiungeva il culmine nel Quattrocento, specialmente nel Brunelleschi; ma talvolta la definiva "greca" e la trovava pure nel Borromini.

Per far risaltare quest'ordine segreto, interno e profondo, mai rigido, meccanico, convenzionale, Michele tendeva alla massima semplicità, ricercava una secca essenzialità, una schietta, "naturale" ma scarna eleganza. Al tempo stesso lui, non solo culturalmente raffinatissimo, considerava una debolezza – inutile e immorale - ogni esagerata raffinatezza di forme. Etica ed estetica gli sembravano inscindibili.

Più tardi, dalla seconda metà degli anni Sessanta, i nostri rapporti iniziarono ad allentarsi. Non per nostra volontà. Ciascuno era preso da impegni nuovi e diversi, da diverse occasioni di lavoro e di incontro. E tuttavia Michele è rimasto per me, fino alla morte e anche ora, un punto di riferimento essenziale, una guida ideale. Mi rimane il ricordo della sua pudica ma calda affettuosità e quello di un uomo estremamente sensibile ed intelligente, al quale sono molto debitore.

Giuseppe Selvaggi da "Il Giornale d'Italia" by Paola Valori

Questo libro di un architetto, Michele Valori, è un libro su un architetto. Suoi sono i testi, ed il titolo che è sigillo sulla sua opera di ideatore di case. Postumi sono il montaggio di materiali destinati ad altre elaborazioni, o all'intimo familiare sino ai nipoti dei nipoti.

La Casa è sempre nel cuore mentale di un architetto. Per Michele Valori, leggendo questo libro oltre gli stessi testi, come nel suo sottosuolo, scavando per costruirci muri e tetti, il terminale, poetico e sociale, è l'abitazione dell'uomo: dalla casa, singolo nucleo di affetti e segreti, il chiuso della casa, al gradino comunitario più allargato, il moderno "condominio", poi al Quartiere. Alla Città. Al gran resto che insieme unisce e determina le solitudini dell'uomo. Michele Valori, in un gioco di verità, distribuisce la "Posta fatta in casa" nel circuito chiuso, ma sconfinato sul futuro, con mittente il Padre, cioè l'atto di partenza del nucleo familiare, destinatarie le figlie, ossia il futuro in spazio e tempo. C'è in questo gioco una ideologia avveniristica sull'Urbanesimo, quale gli sviluppi umani impongono. 
Michele Valori concepisce l'abitazione inviolabile, simultaneamente spalancata sugli altri, la Città e il Mondo. Valori sa che l'uomo si avvia, tra grattacielo e sotterranei, a un mondo-alveare. La vittoria dell'uomo, e quindi del progettatore, come Valori, è dare sicurezza intima alla casa e insieme certezza di dialogo. La sua vita di architetto è centralizzata sul rapporto tra abitazione e quartiere: la famiglia come "covata", aperta nelle solidali necessità della vita associata. Questo libro, nelle apparenze distanti dai rigori delle geometrie e dei calcoli, risulta nelle conclusioni d'insieme una realistica fantasia sull'avvenire delle Città. Il libro è una parabola, sin nella busta che offre il titolo: il gioco del vivere sarà felice, se felice è la partenza: l'antica "casa mia". Michele Valori architetto, è autore di Futuro: la casa orto chiuso come necessità per resistere e costruire l'avvenire dell'abitabilità per chissà quali Spazi-Quartieri. Si, sino agli alveari stellari in cui un giorno-notte abiteremo. La libertà di una lettera fatta e distribuita in casa, ed è il simbolo, vorrà dire la libertà ovunque e comunque. Valori sapeva questa responsabilità dell'Urbanista nel futuro. Qui ce la narra, giocando e amando. 
Giuseppe Selvaggi da "Il Giornale d'Italia", 23.VII.1997